Rieti è affetta da un male congenito ?

In questa pagina, pubblichiamo con entusiasmo uno scritto di Roberto Lorenzetti, notissimo, non solo a Rieti,  per il suo impegno culturale, politico e sociale.

L'analisi qui riportata, gentilmente concessa a Rieti Libertaria dall'autore stesso, risale al 1987.  

E' passato quasi un quarto di secolo.

Alcune cose sono cambiate.

Nelle righe che seguono si fa riferimento a progetti allora in corso.

Alcuni sono stati realizzati, altri no.

Se ciò sia stato un bene o un male, in quale caso sia stato un bene o un male, stabilitelo voi.

Prima di esprimere giudizi in merito, vi preghiamo comunque, di leggere questa pubblicazione fino in fondo e poi di guardarvi attorno.

L'invito è rivolto a chi vive a Rieti e nelle sue vicinanze ma in particolare ai giovani, costretti in un "ready made", in un "già fatto" di cui spesso ignorano l'origine ma che intuiscono, avrebbe potuto e potrebbe in futuro, essere diverso.  

Se ritenete che Rieti sia stata sempre così oppure se vi hanno raccontato di un "Eldorado" dei tempi passati, troverete nelle parole di Roberto probabilmente delle risposte, ma ci auguriamo, anche nuove domande.

Ringraziamo Roberto per il suo contributo, per la sua attenzione verso le nostre richieste, per la pazienza utilizzata nell' informatizzare il "materiale" a noi inviato.

Sperando che le collaborazioni siano sempre più numerose e che queste pagine esprimano sempre di più  pensieri, percorsi, approcci diversi, vi auguriamo la buona lettura.

 

R. L.

  


Foto di Roberto Lorenzetti "rubata" dal suo profilo Fb.
Foto di Roberto Lorenzetti "rubata" dal suo profilo Fb.


Rieti: da capoluogo a periferia di se stessa

di Roberto Lorenzetti


Premessa

 

L'idea iniziale di questo articolo era quella di ripercorrere e grandi linee la storia del rapporto tra il Velino e il territorio reatino, con l'intento di inserire l'ultimo discusso progetto all'interno della lunga cronistoria delle vicende che fin dall'epoca romana accompagnano la storia sociale ed economica di Rieti e dell'agro reatino.

In realtà è venuta fuori tutt'altra cosa, sia perché una storia del Velino l'ho già scritta e la sua pubblicazione seguirà di poco l'uscita di questo numero de Il Territorio, sia perché - ed è questo il motivo principale - dopo tanti mesi di aspro dibattito, il miglior contributo che la nostra rivista potesse offrire a questa città, è l'invito ad una riflessione globale e non semplicemente incentrata sulle vicende di quest'ultimo progetto.

Oltre al Velino mi sono quindi soffermato su alcune altre questioni-campione, tentando di far emergere, attraverso la mediazione della storia, non i singoli problemi, ma il problema strutturale che sottostà - arginandola o indirizzandola in determinate direzioni - alla dinamica evolutiva di questa città.

Non si tratta di un esame preciso e articolato delle varie questioni, ma piuttosto di semplici riflessioni a voce alta, dalle quali credo che sia possibile far emergere quello che potremmo genericamente definire come il problema dei problemi, una sorta di forza più o meno occulta che ha imbrigliato le capacità individuative e quindi progettuali, della città in questi ultimi decenni.

Sono convinto che se si continuerà a rimanere impantanati nella mediazione delle singole questioni senza alzarsi, riflettere, e pensare, anche in termini apparentemente utopici, a una nuova immagine di questa città, sarà perfettamente inutile sperare nel futuro.

Essa continuerà a non crescere, e lo iato tra chi amministra e chi subisce questo modo di amministrare, sarà sempre più grande.

Ma, si badi, non si tratta di quella incomunicabilità tra la gente e le sempre più complicate questioni di palazzo; qui la questione è più seria ed è percepibile in termini di crescita - soprattutto tra i giovani - di una coscienza di repulsione, di estraneità e snobbismo di quanto avviene in questo spazio urbano che essi vogliono vivere solo come contenitore di persone senza esserne coinvolti.

Non so dargli torto; altre forme di autodifesa non esistono, soprattutto perché anche chi pensa di opporsi a tutto questo, agisce in realtà all'interno dello stesso vertice di decadimento globale, parla la stessa lingua di chi combatte, ed è ugualmente privo di quella capacità di dosare razionalità e fantasia (è quest'ultima soprattutto a mancare) necessaria ad ogni progetto di reale trasformazione.

La storia, se non può essere maestra di vita, servirà forse nel nostro caso a rendere più leggibile questo problema e a far comprendere che questa città non è affetta da nessun male congenito e che quindi quella che stiamo vivendo non è altro che una fase della sua storia che avrà inevitabilmente termine.

Quando ciò avverrà e come sarà la fase successiva spetta a tutti noi stabilirlo.

 


2. Rieti, il Velino e l'Agro Reatino. Breve storia di un insieme organico

 

Il Velino e l'agro reatino hanno una storia.

L'affermazione è di per se scontata e se si vuole anche banale poiché in fondo tutti i fiumi e tutti i territori hanno una loro storia, ma nel nostro caso questa è caratterizzata da un insieme di specificità che la rendono particolarmente rilevante.

Il Velino non accompagna romanticamente la storia di questa città ma la determina profondamente.

Da sempre, nel bene e nel male, ha condizionato la vita degli abitanti, ha obbligato gruppi di potere politico e economico di ogni tempo ad avere un continuo rapporto con esso, ha determinato i rapporti tra Rieti e le città vicine provocando perfino scontri armati, ha stabilito di che cosa dovessero vivere gli abitanti del contado prima pescatori poi agricoltori, poi di nuovo pescatori e quindi pescatori e agricoltori insieme, ha imposto loro i tempi e le modalità con cui coltivare la terra, trasformare i prodotti, costruire le case al punto che ha perfino disegnato l'immagine stessa di questa città.

È stato un rapporto difficile e astioso, tanto che sono occorsi oltre 20 secoli perché l'uomo riuscisse ad avere ragione della stravaganza delle sue acque.

Non riesco a pensare alla storia di questo fiume in modo disgiunto da quella del territorio che attraversa, soprattutto di quello che va dalla città alla sua confluenza con il Nera.

Dopo tanti anni di lavoro tra vecchie carte ingiallite mi appaiono in una unica immagine che in ogni caso deve essere letta nella sua interezza.

Per ripercorrere seppur a grandi linee la storia di questo insieme dovremmo muovere i nostri paesi dall'antico lago che ricopriva pressappoco l'intera valle di Rieti, formatosi intorno all'epoca quaternaria a causa del potere incrostante delle acque del Velino che provocarono a lungo andare uno sbarramento naturale al suo corso, e dagli insediamenti perilacustri presenti fin dall'età del bronzo lungo il suo perimetro. Se vogliamo però limitare il nostro discorso alla storia della progettualità dell'uomo su di esso,che nello stesso tempo è storia politica, economica, sociale delle trasformazioni del territorio, della tecnologia ecc., bisogna partire da quando Marco Curio Dentato nel III secolo a.C. aprì il primo varco nel ciglio delle Marmore, trasformando il bacino dell'antico lago in una fertile pianura.

Fu questo il primo atto di una lunga serie di interventi, di progetti, di speranze, di disastri, di idee, insomma di rapporti tra l'uomo e queste acque, che già nel X-XII secolo erano di nuovo tornate a riformare l'antico lago costringendo coloro che si erano stanziati nella pianura bonificata ad abbandonarla per salire in montagna, o riconvertirsi in pescatori acquistando porzioni di «acque piscatorie» dalle quali trarre il loro sostentamento.

Nel XII secolo la città di Rieti si accrebbe notevolmente e divenne fondamentale reperire nuove aree produttive.

Fu logico pensare a una nuova bonifica dell'immenso acquitrinio vicino alla città, per strappare alle acque nuove porzioni di «terra laboratoria».

Ci provarono prima i monaci cistercensi di S. Pastore che ne uscirono sconfitti e furono costretti ad abbandonare il loro originario insediamento per stabilirsi nel luogo dove ancora oggi restano i ruderi del loro monastero.

Fu poi la città di Rieti a tentare la strada di una bonifica complessiva, dando vita ad una serie innumerevole di lavori, progetti e astiose dispute con Terni e i centri della Valnerina che tentavano di impedire in ogni modo la defluizione delle acque nel loro territorio.

Papi, cardinali, abati, gonfalonieri e celebri architetti furono per secoli impegnati in questa querelle.

All'inizio del quattrocento Braccio Fortebraccio, signore di gran parte dell'Italia centrale, mediò la furibonda diatriba tra Terni e Rieti e chiamò nel capoluogo sabino il celebre architetto Fioravante Fioravanti con l'incarico di realizzare un canale alternativo a quello curiano.

L'opera fu realizzata ma gli effetti di questa nuova bonifica durarono solo pochi decenni, poiché il potere incrostante delle acque del Velino formò di nuovo una diga naturale che provocò inevitabilmente la riformazione dell'antico lago.

Di nuovo i contadini della piana abbandonarono zappe e badili a favore di canne e reti da pesca, o se ne tornarono in montagna strappando ai boschi nuovi terreni da mettere a coltura.

Nel '500 il problema divenne impellente; occorre «... far sciugar le paludi reatine per la salubrità dell'aere et per l'abundantia», si legge nelle cronache del tempo.

Dopo vari tentativi fallimentari le pressioni dei reatini fecero che il Papa inviasse a Rieti il più celebre dei suoi architetti, Antonio da Sangallo che in questa vicenda trovò la morte forse a causa della malaria, o, come alcuni sostennero, avvelenato dai ternani che come sempre lottavano per impedire la realizzazione di ciò che sarebbe poi diventata la loro maggiore attrazione turistica: la cascata delle Marmore.

Sangallo era però un architetto di corte e la sua esperienza era limitata alle costruzioni di fortezze e palazzi signorili e poco si intendeva del moto delle acque che ancora nel suo tempo restava qualcosa di misterioso.

Inutile dire che ancora una volta gli effetti della bonifica furono solo parziali e temporanei e dopo qualche tempo si dovette di nuovo tornare ad affrontare il problema con un altro celebre architetto, Giovanni Fontana, che arrivò a Rieti con i suoi due promettenti nipoti, uno dei quali era niente di meno che Carlo Maderno.

Siamo alla fine del '500 e i lavori diretti da Giovanni Fontana ebbero finatmente successo e l'agro reatino assunse più o meno l'aspetto attuale.

Dopo una lunga e vischiosa questione idraulica tra Rieti e la comunità della Valnerina, che caratterizzò la vita politico-amministrativa del XVIII secolo, l'attenzione della città di Rieti si spostò sul Velino e sul Turano soprattutto in relazione alle loro disastrose inondazioni dei quartieri bassi della città.

A causa della sua inadeguata e spesso inesistente arginatura, il Velino iniziava ad invadere le campagne fin dalla pianura di S. Vittorino proseguendo poi all'interno della città e quindi nell'agro reatino dove faceva crescere l'alveo dei laghi Lungo e Ripasottile, creando tra l'altro un habitat ideale per la vita delle zanzare anofele, e quindi per la diffusione della malaria, che ogni anno faceva centinaia di vittime tra i lavoratori della terra.

A Rieti Piazza di Ponte, tutto il Borgo S. Antonio e i vicoli di S. Francesco a causa dell'inadeguatezza del vecchio ponte romano, venivano trasformati in quartieri di stile veneziano percorribili solo in barca.

Di nuovo, per tutto l'ottocento e i primi decenni del '900, tornarono a susseguirsi i progetti, le pressioni politiche dei deputati locali e le nuove vertenze con Terni.

Il problema fu definitivamente risolto negli anni trenta di questo secolo, quando il connubio tra il regime fascista e l'industria privata ternana portò alla realizzazione dei due invasi artificiali del Turano e del Salto e quindi al totale controllo delle acque che da allora non rappresentano più un problema né per Rieti, né per l'agro reatino.

 


3. La centralità della questione Velino nella vita economica e politica del passato

 

Una costante accompagna la storia degli interventi più o meno riusciti sul Velino ed è quella che a pensarli, progettarli e realizzarli era la città di Rieti nella sua globalità.

Nel cinquecento l'iniziativa la prese prima il municipio, poi un gruppo di possidenti dell'agro, e in entrambe le occasioni i fondi necessari furono reperiti attraverso una tassazione collettiva di tutti coloro che avrebbero tratto beneficio dalle opere da realizzare.

Nell'ottocento fu la borghesia e aristocrazia agraria a promuovere, spesso a proprie spese, l'elaborazione dei progetti e, insieme ai rappresentanti del potere politico, a fare pressioni per ottenere dai governi - da quello napoleonico fino a quello giolittiano e via via fino al fascismo - un contributo anche parziale per la realizzazione dei lavori.

Nel '300-'400 e '500 il municipio di Rieti nominava commissioni di esperti e cittadini per studiare le varie ipotesi di bonifica; nel 1705 venne costituita la «Congregazione degli argini e dei fiumi»i cui deputati avevano l'incarico di controllare delle ristrette porzioni del Velino e del Turano, segnalando all'autorità municipale le necessità di manutenzione e riparazione.

Nel 1801 sempre a Rieti si istituì la «Prefettura delle acque» che oltre al Velino e Turano controllava il Fiumarone e il Canera e riscuoteva dai proprietari rivieraschi una tassa i cui proventi veniva utilizzati per la manutenzione degli argini.

Successivamente si formarono decine di consorzi tra i comuni dell'agro reatino interessati a realizzare opere di bonifica e di manutenzione del territorio.

L'elaborazione del progetto Maranesi, nato subito dopo l'unificazione nazionale, fece concentrare gli sforzi di tutti sull'ipotesi di una bonifica complessiva della città e del territorio.

La sua realizzazione fu poi limitata alla sostituzione del vecchio ponte romano, alla regolamentazione del fiume nel-la biforcazione di Voto dei Santi ed alla nuova sistemazione degli argini all'interno della città, mentre si faceva sempre più strada la possibilità di realizzare il progetto della società Terni, che prevedeva l'imbrigliamento a monte delle acque del Velino e Turano.

 


4. La questione oggi.

Reinventare un nuovo rapporto tra città, fiume e territorio

 

Questa lunga storia ci consegna un fiume bello e ancora pulito, ormai ridotto a docilità, un territorio magnifico che ancora conserva le testimonianze dell'antico Lacus Velinus: i laghi di Ripasottile, Lungo e Ventina e le diverse lame sparse nell'agro.

Rileggendo le pagine di questa storia si comprende che il secolare rapporto tra il fiume, questa città e gli uomini, è stato duro ma logico.

Si ha sempre l'idea che tutta la città abbia in qualche modo partecipato e contribuito a questo rapporto, dalle lavandaie che lo utilizzavano quotidianamente, ai contadini che vi maceravano la canapa, ai mugnai che utilizzavano la forza delle acque, ai politici che affidavano le loro sorti alla risoluzione dei problemi che esso creava, ai latifondisti che speravano di realizzarci profitti.

Insomma, il Velino, nel bene e nel male, è sempre stato una componente attiva nella vita di questa città e dei suoi abitanti.

Questo rapporto si è poi spezzato; le sue acque non sono più state una minaccia per nessuno, nelle case è entrata l'acqua corrente e la lavatrice, i politici si sono interessati ad altro, gli agrari hanno spezzettato le loro proprietà o le amministrano con sonnolenza da Roma, e i contadini sono diventati operai e impiegati.

Anche questo è logico, e, per amore del cielo, le romantiche nostalgie per il bel tempo andato sono l'unica cosa che non serve a questa città.

Ma, detto questo, quale è allora il problema?

In questi mesi sembra che tutti l'abbiano individuato nel rifiuto dell'anacronistico progetto di cementificazione e nella esclusione dalla guida della città del suo massimo fautore, come se questa vicenda fosse un incidente di percorso, una nota stonata in una situazione armoniosa.

Il problema di fondo è in realtà un altro.

Questa città dal dopoguerra ad oggi non ha saputo pensare, reinventare, progettare un nuovo rapporto né con il fiume che l'attraversa, né con il territorio circostante che, lo ribadisco ancora una volta, non possono essere visti come elementi separati.

Quali coscienze possono allora acquietarsi visto il modo in cui si è svolta e conclusa la questione-Velino?

Forse quelle dei giovani ambientalisti ai quali si deve una opposizione così energica al progetto con forme che, se non sono particolarmente fantasiose, sono da considerare desuete per questa sonnolenta città, ma non certamente quelle di coloro che in tutti questi anni hanno abbandonato il Velino in un vortice di progressivo decadimento. Non certamente quelle di coloro che hanno cinicamente utilizzato questa vicenda come una maschera dietro la quale risolvere i loro problemi politici (addirittura interni ad uno stesso partito) e che subito dopo torneranno ad interessarsi ad altro.

E per il resto di questo insieme territoriale che cosa si sta facendo?

Esiste un progetto per un parco naturalistico dei laghi che resta imbrigliato nel disaccordo, o forse nel disinteresse, dei comuni territorialmente interessati, che non riescono né a riunirsi in consorzio per accedere ai finanziamenti regionali, né ad elaborare una idea di che cosa in realtà questo parco dovrà essere.

Qualcuno a realizzare questo parco ci ha pensato e la cosa va vista in termini positivi, soprattutto se ciò comporterà una valorizzazione complessiva del territorio attraverso la salvaguardia e lo studio dei beni naturalistici, la creazione di centri agrituristici, la possibilità di stimolare un turismo qualificato che oltre ai laghi e allo stesso agro reatino, con la sua molteplicità di tradizioni, potrà fruire della cornice degli insediamenti francescani e dei centri storici della valle, nonché dell'area montana del Terminillo.

Ma questo qualcuno, e non mi riferisco ad una singola persona ma a ciò che potremmo vagamente definire come il potere politico locale che in ogni caso è composto da poche singole persone, in mezzo a questo spazio naturale ha schizofrenicamente pensato di costruirci una superstrada che taglierà in due l'intera pianura con un impatto ambientale tra i più infelici, e con prospettive di urbanizzazione della città e soprattutto dei paesi vicini destinati a trasformare definitivamente l'immagine di questo territorio.

Non voglio entrare nei particolari di questa seconda questione anche se mi lascia fortemente perplesso il fatto che contro tale sciagurata ipotesi (che si è addirittura iniziati a concretizzare) non si è sviluppato quello stesso spirito di opposizione che si è avuto per la vicenda del Velino (si badi, la questione non è meno grave) e la possibilità di un ripensamento totale del progetto è stata lasciata nelle mani di un coraggioso magistrato senza alcun sostegno, né politico né di opinione.

 


5. Rieti. Una città da reinventare

 

Proseguiamo questo nostro viaggio che segue le tracce dell'incoscienza di questa città e soffermiamoci sul suo sistema urbano.

Anche qui chiediamo aiuto alla storia per rileggere la sua evoluzione strutturale e per arrivare ad individuare ancora una volta il punto di frattura con il quale si è messo fine ad una precisa logica evolutiva per addentrarsi in una dimensione di improvvisazione i cui risultati sono oggi macroscopici e irreversibili.

Non è certamente questa la sede più adatta per tentare una ricostruzione dettagliata della storia urbana di Rieti, né purtroppo ci è possibile rinviare il tutto a un'opera sull'argomento tanto è carente la storiografia locale in questo senso.

Ai fini del nostro discorso poco ci interessa se a fondare la città sia stata una colonia umbra stanziatasi a sud come vuole la tradizione riportata da Dionigi di Alicarnasso o se invece, siano stati i Sabini provenienti da Trestina presso Amiterno come riferisce Marco Porcio Catone.

Sappiamo di certo che nel 290 a.C. Marco Curio Dentato, l'artefice della prima bonifica dell'agro reatino, sottomise Rieti a Roma e che in questo periodo venne costruita la prima cinta muraria della città che, orientata in forma ovale da ovest a est, si sviluppava per circa 1380 metri di circonferenza racchiudendo la parte più elevata della collinetta sulla quale sorgeva il nucleo urbano.

In questa dimensione di piccolo centro agro-pastorale Rieti restò fino al periodo successivo alle invasioni barbariche quando iniziarono a sorgere dei nuclei suburbani soprattutto verso il Velino, al di fuori dell'antica porta Romana che al tempo era ubicata dove oggi si trova l'incrocio tra via della Pellicceria e via Roma.

In questo frangente si iniziò formare anche il Borgo al di là del ponte romano, che trovò nella cavatella, un ramo artificiale del Velino poi ricoperto, il suo limite di demarcazione.

Nel XIII secolo la popolazione si era notevolmente accresciuta e oltre ad avviare i lavori di bonifica del territorio circostante per soddisfare gli accresciuti bisogni alimentari della città, il nuovo e più esteso nucleo urbano venne inglobato entro una nuova cinta muraria che corrisponde in massima parte a quella ancor oggi osservabile.

Le porte della città vennero aumentate, e le vecchie furono traslate lungo il loro corrispondente asse viario all'altezza della nuova cinta muraria.

Tra il '400 e il '700 all'interno di quello che Loreto Mattei descrisse come «...un triangolo bislungo... con la punta verso levante e la base a ponente», si costruirono palazzi signorili e case comuni, disegnando nuovi quartieri e colmando progressivamente gran parte delle zone verdi interne alla città.

Fino alle soglie di questo secolo l'immagine complessiva di Rieti non cambiò di molto.

Essa continuò a presentarsi come un luogo spazialmente definito e formalmente contenuto in un preciso perimetro che segnava in modo netto i confini dell'ambiente costruito con quello naturale.

I mutamenti erano limitati all'interno, e l'adattamento alle nuove dimensioni culturali avveniva lentamente, e in ogni caso era logicamente conseguente al preesistente, tanto che l'immagine complessiva della città non ne risentiva.

Se osserviamo ancora oggi il centro storico di Rieti, malgrado il suo sciagurato abbandono, è possibile cogliere i segni di questo lungo processo evolutivo e quindi delle modalità con le quali le società che ne hanno usufruito, lo hanno adattato alle esigenze dei loro tempi.

Ci troveremo in pratica davanti, per dirla con Le Corbusier, ad «...un avvenimento continuo che si svolge nei secoli con opere materiali, tracciati e costruzioni, che le conferiscono una propria personalità e da cui emana un po' alla volta la sua anima».

Un concetto questo che rispetto allo sviluppo urbanistico della Rieti contemporanea è completamente privo di ogni significato.

Dopo l'unificazione nazionale, la realizzazione dello zuccherificio e successivamente della SNIA-VISCOSA indirizzarono lo sviluppo di un lembo della città verso nord, lungo l'attuale viale Maraini creando in ogni caso un asse urbano esterno alle mura, ma logicamente collegato alla città.

La realizzazione della ferrovia nel 1883 provocò una nuova fuoriuscita della città dalla cinta muraria, e lungo le rotaie che agirono come nuova linea di demarcazione tra città e campagna, sorsero numerosi insediamenti commerciali e industriali che in tal modo beneficiavano della vicinanza della stazione ferroviaria.

Nel 1927 Rieti fu eretta a capoluogo di provincia e di conseguenza fu costretta a recitare un nuovo ruolo economico-amministrativo su di un territorio estremamente vasto e eterogeneo che va dall'appennino abruzzese alla campagna romana alle colline umbre per addentrarsi con una lingua di terra in una fascia addirittura marchigiana.

«Tutta la città è un cantiere», narrano gli osservatori del tempo nel descrivere lo spirito di rinnovamento urbanistico attraverso il quale Rieti tentava di cambiare il suo volto rendendosi maggiormente funzionale alle competenze che il regime gli aveva affidato.

Le mura medievali vennero sventrate, vecchi palazzi vennero abbattuti, la piazza municipale venne reinventata e al tradizionale e spontaneo modo di utilizzare gli spazi, si contrappose il tentativo di una ferrea e razionale organizzazione della città.

A pianificare questa sorta di progetto di reinvenzione della città, arrivò il Piano Battistrada, nel quale si proponevano nuove forme di configurazioni spaziale e una nuova logica per la gestione dei problemi urbani.

Era il progetto della Rieti fascista, con la sua buona dose di scenografia di regime e le manie, vissute al tempo con vero entusiasmo, di sostituire il vecchio con il nuovo, con l'intento esorcistico di identificare il rinnovo dell'aspetto urbano con il progresso civile, dietro le quali si celavano gli evidenti desideri dei gerarchi locali di imprimere un marcato segno autocelebrativo al volto urbano della città.

Rileggendo oggi quel progetto emerge tuttavia che esso muoveva da una idea precisa di città.

Che oggi possa piacere o meno, occorre con rammarico constatare che la progettualità espressa in questi ultimi decenni è decisamente più carente e si è spesso concretizzata in operazioni ancor più sciagurate di quelle pensate dai paladini delle romaniche fantasie mussoliniane.

Forse è vero il fatto che vivendola quotidianamente, non si ha una reale percezione di questa città nella sua globalità.

La si vive piuttosto dando fondo a tutte le proprie capacità di adattamento logistico, senza fermarsi molto a riflettere sui suoi mali ed avere quindi la coscienza del prezzo culturale che si è costretti a pagare vivendoci.

L'unica possibilità concreta che si presenta ad esempio a due giovani sposi di avere una propria casa, è quella di passare metà della loro vita a pagare le rate dei 70 mq. acquistati a Micioccoli o in altri quartieri del tutto simili agli alienanti ghetti suburbani delle grandi metropoli i quali sono in genere desueti nei piccoli centro come Rieti.

Si gira poi per un centro storico desolato e fatiscente che non ha mai conosciuto le tensioni di recupero e valorizzazione che hanno caratterizzato l'azione amministrativa di tutte quelle città che hanno un centro storico da salvaguardare e valorizzare.

Nel nostro, sono rimasti a viverci solo pochi anziani e coloro che non hanno avuto la possibilità di andarsene.

Se a risiedere a via Roma, la più importante arteria commerciale della città, sono rimaste solo poche decine di persone, la situazione nei quartieri S. Francesco, S. Lucia e Porta d'Arce è addirittura tragica.

La piazza del comune riesce a svolgere solo il ruolo di centro politico-amministrativo.

Questo vuol dire che dopo le 20 e nei giorni festivi resta deserta, sia d'estate che d'inverno, poiché per incontrarsi, passeggiare e discutere, la gente ha da anni prescelto viale Maraini.

Credo che viviamo nell'unica città d'Italia che ha in qualche modo costretto i suoi abitanti ad eleggere quale spazio prediletto non il centro cittadino ma un'arteria periferica, in più intensamente trafficata.

Dopo tanti anni di utilizzo anche un'anonima strada come Viale Maraini è addirittura riuscita ad acquisire un senso, e a dotare alcuni suoi microspazi di significati simbolici.

C'è così il bar dove si incontrano i figli della buona borghesia cittadina con le loro Volvo 740 bianche e le linde Jeep che mai hanno abbandonato l'asfalto, contrapposto a quello considerato vagamente di sinistra, patria del sommerso e di qualche altra traccia di trasgressione locale.

C'è poi quello dove i militari aspettano l'ora del rientro in caserma e cercano di alleviare il triste soggiorno in questa città cercando qualche avventuretta amorosa.

Sui marciapiedi passeggia il resto della gente, quasi degli spettatori di quanto avviene ai lati opposti, o meglio degli attori senza scena, che in ogni caso proverebbero disagio a fermarsi più di tanto in uno dei punti chiave del viale.

I quartieri periferici non hanno neanche un accenno di vita sociale e recitano unicamente il ruolo di dormitori funzionali agli uffici della città e alle fabbriche del nucleo industriale.

Insomma, negli ultimi decenni Rieti ha messo fine alla sua tradizionale logica evolutiva basata sul progressivo adattamento al contesto storico e ambientale, e l'immagine complessiva con la quale si presenta oggi è quella di un insieme disomogeneo di aggregati funzionalmente incompatibili, ciascuno con la sua labile storia e il suo mediocre destino.

 


6. La cultura.

Tra presenzialismo e improvvisazione

 

Su un'ultima questione mi preme soffermarmi: quella della cultura.

È difficile trovare oggi a Rieti qualcuno che non concordi nel giudicare quantomeno precaria la vita culturale di questa città, anche se (credo di non essere molto lontano dal vero) complessivamente la cifra che annualmente si investe in questo settore è di circa un miliardo.

Gli enti pubblici continuano, senza essere lontanamente sfiorati dal dubbio dell'errore, nell'utilizzare i maggiori capitali in iniziative dalle quali non si ottiene nessun ritorno, né qualitativo né in termini di immagine della città, né tantomeno in quella di crescita culturale dei cittadini.

È bene inoltre che si sappia che la stragrande maggioranza dei fondi impiegati grava sui bilanci complessivi degli enti, non proviene dall'inserimento dei programmi che si intendono realizzare nelle varie leggi regionali sulla cultura che pure esistono.

In altri termini, si opera in una stravagante dimensione autarchica nella quale sono le stesse persone a ideare, progettare e finanziare, una iniziativa e giudicare se questa sia riuscita o meno.

Le domande alla regione, in verità, si presentano ma evitano il cestinamento per mero dovere di burocrazia e a Rieti continua ad arrivare il più modesto dei finanziamenti che viene annualmente ripartito tra le varie provincie del Lazio.

Le banche non vogliono certamente sentirsi inferiori agli enti locali, anzi hanno più soldi e ci tengono farlo vedere spendendo cifre da capogiro per preziosi volumi in carta patinata e quadricromia senza però minimamente interessarsi a cosa in realtà ci sia scritto dentro, o finanziando convegni e centri di studio nei quali si respira la rarefatta aria di un accademismo d'altri tempi.

La biennale d'arte, il festival Mattia Battistini e la Festa del Sole sono le iniziative elette da questa città a rappresentarla in Italia e nel mondo.

L'impressione che ho è che invece della loro esistenza si accorga soltanto chi le organizza e chi ne é direttamente coinvolto.

Non se ne accorgono certamente i giornali a grande tiratura, non se ne accorge questa città che ad esempio continua a passare indifferente davanti alle volte del vescovato periodicamente trasformate in spazio espositivo.

Non sono certamente tra coloro che demagogicamente credono che la riuscita o meno di una iniziativa debba misurarsi unicamente con il metro del numero delle persone che riesce a coinvolgere, ma quando per una mostra si spende quasi un miliardo, è doveroso, giusto, sacrosanto aspettarsi qualcosa di più; un ritorno economico in termini turistici ad esempio.

Viene ormai spontaneo chiedersi quali sono le reali motivazioni, e dove si trovino gli stimoli per mettere ancora in moto la macchina organizzativa di questa iniziativa. Per me che mi ostino a credere nell'onestà e nella buona fede della gente, resta un inspiegabile mistero.

Sulla Festa del Sole vi risparmio ogni commento, anche se vi confesso che mi piacerebbe approfondire il meccanismo con il quale si è riusciti a pensare che una manifestazione il cui programma centrale (gare sul fiume) è di per sé simpatico e divertente, ma che in ogni caso è al livello proprio delle iniziative di comitato di quartiere, potesse essere eretta a manifestazione turistica per eccellenza con pretese addirittura internazionali.

Si potrebbe andare avanti per decine di pagine a riflettere sull'incongruenza della vita culturale di questa città, e altrettante se ne potrebbero scrivere in termini propositivi, ma ritengo che proporre senza che sia maturata una reale necessità di cambiare, passando magari per una fase di crisi e ripensamento complessivo, è di per se una operazione inefficace se non addirittura ingenua.

Ma le cose sono sempre andate così?

Anche in questo caso, no. Anche in questo caso, ripercorrendo la storia delle capacità culturali di questa città, è possibile individuare un punto di frattura, un momento in cui si è abbandonato il confronto con realtà più vaste e ci si è chiusi nel guscio di un municipalismo incosciente.

Senza tornare indietro nei secoli sarà qui sufficiente riflettere su alcune realtà prese a campione negli ultimi decenni.

Pensiamo agli anni '50-'60, un periodo duro della vita italiana, caratterizzato dalle impellenti necessità di ricostruzione del paese che avrebbero giustificato, anche in provincia, una concentrazione totale degli sforzi in questa direzione.

Eppure, proprio in questo periodo era legittimo che il primo cittadino fosse un uomo come Angelo Sacchetti Sassetti, che altro non era che un intellettuale, un bravo storico locale, capace di scrivere libri e articoli.

Figura di grande intransigenza morale, raccoglieva la fiducia di tutti per ciò che era e non certamente per la sua astuzia politica o per il numero dei voti che egli riusciva a portare al partito nel quale militava.

Dall'ambiente politico reatino dove il dibattito politico-culturale era pane di

tutti i giorni, uscirono uomini di grande autorevolezza; alcuni nomi: Cirese, Matteucci, Anderlini.

Lelio Basso stampava la sua rivista a Rieti e non solamente perché ciò gli costasse di meno, e nello stesso periodo Eugenio Cirese, insieme al figlio Alberto, dette alle stampe il primo numero de «La Lapa», una rivista dove si leggono le firme di Claude Lévi-Straus, Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, ecc.

Una rivista che ancora oggi è considerata un punto di riferimento importante per lo studio della vita culturale italiana di quegli anni.

Circa un decennio più tardi Rieti era diventata il punto di riferimento della musica giovane italiana.

Vi si organizzava la «Parata di Primavera» o festival dei complessi, l'unico palcoscenico italiano aperto alle nuove tendenze della musica giovane.

Era un fatto culturale e di costume di grande portata e tutto il mondo giovanile del Paese aspettava il giorno in cui la RAI trasmetteva in differita le serate musicali del festival.

Contemporaneamente nacque il Karnhoval, il carnevale internazionale degli artisti.

Ero poco più che quindicenne quando nel 1969 si svolse questa manifestazione della quale percepii soltanto gli echi, ma fin da allora ne rimasi incuriosito e oggi, raccogliendo la documentazione su di essa, non posso fare a meno di sbalordirmi nel constatare la sua straordinaria portata culturale.

Al di là di come si sia poi concretizzata, ciò che merita maggiore attenzione è che essa si sia potuta organizzare qui a Rieti; che esistevano in pratica persone in grado di elaborare una simile proposta e soprattutto amministratori disposti a recepirla.

Ho davanti a me l'elenco dei giornali che chiesero di accreditare un loro inviato alla manifestazione; alcuni nomitra i tanti: Sergio Saviane dell'Espresso, Fordeman di Stern, Dario Bellezza di Nuovi Argomenti, Felix de Mandelsohn del Times e poi ancora altre testate come La Tribuna di Ginevra, Radio Berlino, 2001, Big, Man, L 'Arts Laboratory di Londra ecc.

Rileggo gli articoli dei giornali, i servizi pubblicati sulle riviste alcune delle quali come 2001, il giornale dei giovani per eccellenza, dedicarono a questa manifestazione l'immagine di copertina, e non posso fare a meno di pensare alle iniziative dei nostri giorni.

Tutto sommato vedo come positive anche le furibonde polemiche che seguirono questa manifestazione di rottura; guai se ciò non fosse accaduto, sarebbe stato veramente un fallimento.

Ma che cosa era il Karnhoval? Senza dilungarmi in una sua descrizione che sarebbe fuor di luogo in questa sede, mi piace ricordarlo con alcune definizioni che Emilio Villa, Wolf Vostel, Julien Blaine, John Hopkins, Alberto Tessore e Antonio Spatola (il comitato organizzativo della manifestazione), scrissero nella locandina di diffusione: «il Karnhoval è un arlecchino in maschera, è una festa totale, è gioco spaziale, è un'opera d'arte collettiva, è la metamorfosi di una città, è l'abolizione del buon senso, è un festival dell'assurdo, è una rivoluzione in maschera».

Oggi sarebbe anacronistico pensare a una riproposta di iniziative di questo tipo. I complessi non sono più un fatto di costume, gli happening del Living Theatre e lo spirito di rottura totale del Karnhoval avrebbero tutt'altro significato e l'antropologia strutturale di LéviStrauss o il dibattito sulla cultura delle classi popolari che si tenne sulle pagine de «La Lapa», si è forse concluso e in ogni caso si svolge in termini diversi.

Sono tutte realtà che fanno parte del loro tempo, del quale però sono state interpreti importanti, ed è questo il dato più rilevante, che ci fa percepire l'incolmabile distanza che le separa dalle realtà dei nostri giorni che altro non sono che interpreti di loro stesse.

Ora che sto chiudendo questo scritto mi rendo conto di non aver detto nulla su molte altre importanti questioni.

Sul museo ad esempio, che non esiste in una città che spende quasi un miliardo ogni due anni per una mostra di arte moderna e qualche milione ogni mese per una galleria che non si è mai aperta; un museo, al di là della sua rilevanza scientifica, non è un optional di una città, è una delle misure della sua dignità.

Quanto ci sarebbe da dire sugli edifici di proprietà comunale abbandonati al degrado, sulle necessità di un centro di documentazione della memoria storica che tanto mi sta a cuore, sull'anacronismo di certi progetti che circolano in città in questi ultimi tempi, come quello del conservatorio musicale che raggiungerebbe il suo massimo scopo con l'evitare che i nostri giovani talenti intraprendano le lunghe e pericolose strade di Terni, L'Aquila e Roma, sedi di conservatori di grande tradizione e prestigio, e quello fantasioso dell'Università della musica in base al quale Rieti diverrebbe di colpo la capitale europea della musica moderna in un contesto nel quale non si mai voluta stendere una mano ad un gruppo di giovani che da qualche tempo ha iniziato a Rieti un discorso musicale nuovo, indirizzato proprio alla creazione di una scuola di Jazz e di musica moderna.

Ma parlando di questi ed altri argomenti entrerei inevitabilmente in una dimensione propositiva che, come ho già detto, servirebbe a poco, almeno fino a quando questa città non rispolvererà la sua disponibilità a rinnovarsi, oggi inesorabilmente sigillata sotto una pesante coltre di apatia che spesso si trasforma in arrogante municipalismo.

 


7. Per concludere

Quando qualche volta mi è capitato di discutere di questi problemi con alcuni amici amministratori, nei migliori dei casi la risposta è stata sempre: «dicci allora che cosa dobbiamo fare».

Potrebbe essere una risposta logica se sottointendesse una reale disponibilità ad ascoltare, valutare e lavorare su ipotesi nuove, ma in realtà è solo una risposta di rito che vuol solo dire: dicci adesso, mentre si beve un caffè o si fa una passeggiata, e da qui a pochi giorni, quale è il rimedio ai mali di questa città, come se la risposta fosse lì dietro l'angolo, o potesse scaturire da un tocco di bacchetta magica.

Credetemi, non ho trovato alcun amministratore disposto ad esempio a difendere iniziative come la Biennale d'arte o la Festa del Sole, ma non ce n'è stato mai nessuno che magari la mattina successiva non abbia firmato una delibera di contributo finanziario ad esse.

Se questa prassi, (di continuare cioè ad approvare per paura di cambiare) la si estende ad ogni settore della vita amministrativa, allora si comprende perché siamo fermi su tutti i fronti.

Le dieci, cento, mille soluzioni di cui questa città abbisogna non sono dei toccasana preconfezionati.

E' anche vano cercarli nella logica di rattoppare quello che già c'è, ma vanno studiati e inventati di volta in volta, manifestando la volontà di rimettere sul tavolo l'intero pòtenziale di energie impiegato nei singoli settori; solo allora i «dicci cosa dobbiamo fare» avranno un senso.

Perciò in questo scritto di proposte non ce ne sono, e i fautori della logica che non si può criticare senza proporre mi accusino pure di disfattismo, eviterò in tal modo l'accusa di presunzione, o forse di ingenuità, che avrei meritato se fossi salito in cattedra ad elargire - se mai ne avessi la possibilità - indicazioni su ogni settore.

C'è un filo rosso che lega tra loro i problemi che abbiamo trattato, ed è quello - lo abbiamo più volte detto - della perdita delle capacità progettuali necessarie alla crescita della città.

Se mi è concesso di chiudere con un'immagine, ho l'impressione che Rieti abbia da un preciso momento abbandonato la strada maestra, e le sue capacità di crescita si sono frastagliate in un complicato e tortuoso reticolo di viuzze secondarie che ritardano paurosamente la marcia di coloro che sono stati chiamati a percorrerle, con il risultato che non è più possibile tenere il passo con altre città che camminano invece su strade dritte e scorrevoli.

L'unica proposta che ritengo abbia un senso, è quindi quella di ritrovare di nuovo questa strada, dove le istanze propositive sarà più facile elaborarle, proporle, valutarle e realizzarle; per farlo è però necessario avere l'onestà e il coraggio di ammettere che i percorsi che si stanno percorrendo sono sbagliati, senza aspettare di accorgersi che essi sono l'anticamera di un labirinto privo di vie di uscita.

 

 

Roberto Lorenzetti 1987

 

 

 


Rieti nei primi anni '80


Dall'archivio di Rieti Libertaria, alcune immagini di Rieti nei primi anni'80