Il brigante Berardino Viola al di là del mito
di Fulvio D’Amore

  La figura del brigante Berardino Viola, nato il 24 novembre 1838 presso il piccolo borgo di Vallececa (comune di Pescorocchiano), non può essere compresa a fondo se non la si inquadra nel contesto socio-economico del Cicolano di quegli anni drammatici.
  E’ il classico caso, quello di Berardino Viola, in cui è impossibile «separare l’albero dal bosco».
  Certo se si considera la singola individualità del brigante si rimane colpiti dalla negatività delle sue «imprese memorabili» da inquadrare, comunque, nello scorcio di un’epoca dura e violenta.
  Nel paese d’origine, situato sulla riva sinistra dell’allora fiume Salto, suo padre, Angelo Viola faceva il mestiere di guardia doganale e sua madre, Marianna Rossetti, esercitava la professione di filatrice, per arrotondare il magro stipendio del marito.
  La famiglia nella quale Berardino Viola nacque non era, quindi, stretta dalla miseria e anzi poteva collocarsi tra quelle fortunate, in un territorio nel quale la sopravvivenza era già un traguardo.
  La gioventù del giovane Berardino trascorse in un clima di instabilità politica e sociale, di miseria dilagante in un quadro culturale caratterizzato da un analfabetismo pressoché generalizzato: tutte situazioni che finivano per creare un terreno fecondo per il gonfiarsi del fenomeno brigantaggio, tanto diffuso lungo tutta la frontiera pontificia a ridosso del Cicolano, anche nel periodo borbonico.
  L’adolescenza del piccolo Berardino, dopo la metà dell’Ottocento, si svolse quindi in una situazione di scompigli e duri contrasti che giornalmente avvenivano lungo la linea di confine tra guardie doganali e gendarmi papali, a causa di continui sconfinamenti che da ambo le parti avvenivano.
  Contrabbando ed incetta di derrate alimentari, furtivamente introdotte nel regno di Napoli, videro coinvolti la maggior parte dei «Signori» del Cicolano che spesso si erano serviti, per imporre le loro condizioni, di bande armate composte da contadini e braccianti, i quali, dopo aver partecipato alle consuete scorrerie, rientravano tranquillamente nei loro villaggi come fosse una normale prassi all’interno di un equilibrio che entrambe le parti sorreggevano.
  La famiglia Viola ben presto si trasferì al di là del fiume presso Teglieto (comune di Petrella Salto) proprio quando le mascalzonate di Berardino si andavano moltiplicando al punto che i genitori pensarono bene di mandare quel loro figlio scapestrato a scuola presso il parroco di Rigatti, paese situato dentro i confini papalini, nelle vicinanze di Vallececa.
  D’altronde quel fanciullo basso, magro, sporco e stizzoso, tutto nervi, si poteva magari correggere con l’ausilio di un buon insegnamento.
Ma, purtroppo, arrivò il momento in cui persino il rigido sacerdote dovette dichiarare la resa, proclamando a gran voce che di quel tanghero indomabile non ne voleva più sapere.
  Nasceva così, in quella tragica contingenza, la fama negativa del giovane Berardino spesso, a detta del vicario foraneo di Rigatti, pieno di «perverse inclinazioni, che fin dalla più tenera età manifestava».
  Il suo ingresso nel mondo del lavoro avvenne, molto probabilmente, proprio in questo periodo, al servizio di uno dei tanti proprietari armentizi della Valle del Salto ma, poi, più specificatamente, alle dipendenze come garzone del facoltoso Don Francesco Mozzetti.
  Non deve stupirci, quindi, se al momento dello sfaldamento dell’apparato statale borbonico, Berardino Viola, appena scarcerato dal tribunale della Gran Corte Criminale dell’Aquila perché aveva partecipato a tumulti di piazza (23 settembre 1860), dietro promessa di condono della pena, entrò a far parte della compagnia di guardie nazionali di Borgo San Pietro condotte dal capitano Don Francesco Mozzetti.
  In questi frangenti, tra il 15 ed il 18 settembre 1860, quasi tutti i municipi del Cicolano, con deliberazioni decurionali, avevano aderito al governo di Vittorio Emanuele II, mentre in tutto l’Abruzzo scoppiava la rivolta caratterizzata da scontri tra reparti garibaldini e truppe borboniche allo sbando, contadini e braccianti inneggianti la causa di Francesco II, avversi ai liberali possidenti.
  Berardino Viola, quindi, inserito in un plotone di settanta guardie nazionali cicolane guidate da Don Luigi Boileau, dal 27 settembre al 5 ottobre 1860 rimase a presidiare Avezzano, per poi ritirarsi su Fiamignano, dopo l’ordine impartito del sottintendente di Cittaducale.
  L’entrata delle truppe borboniche nella Marsica fece scatenare in tutto l’Aquilano e nel Cicolano una lunga serie di sanguinose sommosse popolari atte a ripristinare in tutti i comuni che avevano aderito in qualche modo alla monarchia sabauda l’autorità legittima dei Borboni e, proprio in questa fase, Berardino Viola, passato ormai definitivamente dalla parte degli insorgenti, sobillò la rivolta perpetrando assalti, ricatti, minacce, sequestri di persona, furti e rapine ai danni di quelli che una volta erano stati i suoi «padroni».
La Corte d’Appello degli Abruzzi gli addebitò ben 21 capi d’accusa, condannandolo in contumacia per: «Attentato che ha avuto per oggetto di distruggere e cambiare il Governo. Di saccheggi e devastazioni, grassazioni, ribellioni, formazione di banda armata» (28 ottobre - 2 novembre 1860).
  Arrestato la sera del 13 dicembre 1860 presso Fiumata, dopo circa un anno e mezzo di prigionia e vari tentativi di fuga, tra il maggio ed il giugno del 1862, il reazionario Berardino Viola riuscì finalmente ad evadere dalle carceri aquilane.
  Il 2 luglio dello stesso anno, durante la festa della Madonna del Poggio, celebrata con devozione dagli abitanti di Teglieto, Berardino Viola uccise a colpi di coltello la guardia nazionale Berardino Colombi di Rigatti, forse per vendetta.
  All’inizio del mese di settembre si unirono briganti delle bande del Cicolano, dell’Aquilano e della Marsica, formando la famigerata «Banda del Cartore», così chiamata perché il drappello dei malviventi spesso trovava rifugio e base per scatenare azioni brigantesche, appunto, nel bosco del Cartore, situato sull’impervia montagna della Duchessa.
  Sequestri, saccheggi ed uccisioni si moltiplicarono in maniera impressionante fino al 1863 con relativo assottigliamento della banda che, seppur sempre pericolosa, fu ridotta a mal partito dai numerosi scontri a fuoco con la truppa sabauda.
  Il 20 gennaio 1864, il noto brigante di Teglieto, venne arrestato a Roma sorpreso nel rione Trastevere dalla polizia pontificia e tradotto nelle prigioni di Castel S. Angelo.
  Dopo sommario processo, considerato dal governatore ecclesiastico però solo un «brigante politico», fu espulso ed inviato a Barcellona insieme ad altri noti reazionari napoletani.
  Lavorò per alcuni mesi facendo il mestiere di scaricatore di porto sia a Barcellona che a Marsiglia.
Il piroscafo napoletano Mongibello lo ricondusse a Civitavecchia in data 24 aprile 1864.
  Sostenuto da fiancheggiatori, per un certo periodo, si tenne nascosto a Roma e poi a Monterotondo, tornando, infine, ad imperversare nel Cicolano.
Insieme alla sua vecchia banda, spalleggiato dai fedeli briganti Giovanni Colaiuda e Domenicantonio Orfei, ricominciò a taglieggiare i suoi nemici di sempre individuati tra alcuni proprietari di S. Anatolia, Magliano dei Marsi e Corvaro, altri di S. Maria del Sambuco ed ancora: Giambattista Properzi di Lucoli, Don Carlo Mozzetti e Don Luigi Gregori di Campolano.
L’uccisione di Valentino Tocci (14 settembre 1864), considerato dai briganti una spia dei piemontesi, completò il quadro fosco delle vendette compiute dalla banda.
  In seguito, Berardino Viola, arrestato di nuovo a Tivoli dalla gendarmeria papalina (27 ottobre 1864) fu trattenuto nelle Carceri Nuove di Roma fino al 26 settembre 1865.
  La primavera del 1866 lo vide ancora protagonista di cruente vicende nel territorio del Cicolano, dopo esser evidentemente sfuggito alla sorveglianza dei papalini e pronto a giustiziare il giovane incosciente Emilio De Sanctis di Collaralli di Radicaro, perché, in sua assenza, si era impossessato di alcuni fucili appartenenti alla banda.
  Per far perdere le tracce alle forze dell’ordine che lo inseguivano accanitamente, il masnadiero Berardino Viola si mise in salvo nell’Agro romano, ma fu subito dopo catturato dalla polizia pontificia che, in quel periodo, pressata dal governo italiano, non concedeva più molta libertà di movimento ai briganti napoletani.
  Espulso di nuovo da Roma nel febbraio del 1867, fu imbarcato insieme ai famosi Crocco e Pilone a Civitavecchia, facendo scalo a Marsiglia ed Algeri, luoghi dai quali però la combriccola venne respinta e rinviata nello Stato pontificio.
  Il 14 maggio 1868, la presenza del brigante di Teglieto fu segnalata ancora dalle parti di Monterotondo, mettendo in allarme il pretore di Fiamignano che subito predispose un’attenta sorveglianza dei passi montani lungo la frontiera pontificia, per impedire il rientro nel Cicolano al temibile bandito.
  Dopo aver tentato l’11 dicembre 1868 un approccio con Cherubino Donatis, sindaco di Petrella Salto, al quale il Viola intendeva forse arrendersi, venne di nuovo incarcerato dalla gendarmeria pontificia, riuscendo tuttavia ancora una volta a fuggire dalle Terme Diocleziane, in compagnia dei capibanda Crocco e Pilone (6 marzo 1869).
  Successivamente, riacciuffato dai papalini in data 26 ottobre 1870, fu ritrovato prigioniero dalle forze italiane d’occupazione dello Stato romano nel carcere di Paliano nel Frosinate.
Stavolta la Corte d’Assise dell’Aquila, con giudizio emanato il 17 giugno 1873, condannò il brigante ai lavori forzati a vita, commutati, poi, a 24 anni di reclusione.
  Alla fine, con altro decreto del 24 ottobre 1896, la pena venne ulteriormente ridotta. Il 19 aprile 1890, l’ergastolano Berardino Viola, detenuto nel Bagno penale di Civitavecchia, con successivo decreto 1° dicembre 1889, fu trasferito all’isola della Maddalena, per scontare il resto della dura segregazione.
  Uscito dal carcere all’età di 59 anni e tornato nel Cicolano, il 9 aprile 1897 ottenne dal municipio di Petrella Salto la concessione della «carta di permanenza» che, purtroppo, non gl’impedì di commettere, la sera del 3 novembre 1898, un ennesimo e terribile delitto, massacrando a colpi di bastone un certo Francesco Camelletti.
  Seppur provocato presso l’osteria di Fiumata dal giovane muratore originario di Pace (Pescorocchiano), anche in questa occasione il Viola non seppe dominare la sua indole focosa nei confronti di chi aveva osato insultarlo più volte davanti a tutti.
  Di nuovo alla macchia, il vecchio brigante si scontrò il 15 novembre con un drappello di carabinieri della stazione di Fiamignano nei pressi del bosco chiamato Fontarella, poco distante da Teglieto, riuscendo, con la sua furbizia d’antico masnadiero, a far perdere le sue tracce.
  L’alba del giorno dopo lo vedeva già in fuga verso l’alta Sabina e, grazie alla solita congrega di complici (contadini, pastori e cavallari), fece perdere le sue tracce, proprio quando il giorno 11 marzo 1899 la Corte d’Assise emise nei suoi confronti una nuova sentenza di condanna all’ergastolo in contumacia.
   Con lunghe marce caratterizzate da repentini spostamenti su percorsi montani impervi e al riparo delle boscaglie, l’ormai leggendario brigante Viola, tra l’aprile ed il maggio del 1900 incontrò il sanguinario bandito Fortunato Ansuini insieme all’altro losco figuro di Bassano chiamato Damiano Minichetti, tutti e due ex compagni di scorrerie del ben più noto Domenico Tiburzi, ucciso dai carabinieri alcuni anni prima.
  Insieme a costoro decise di ricattare arditamente «il milionista» duca Grazioli-Lante-Della Rovere di Roma, minacciando di incendiare tutte le sue masserie e di far strage dei suoi armenti sparsi un po’ ovunque dall’Agro romano fino alla montagna marsicana di Pereto, se non avesse soddisfatto le richieste dei tre banditi, che esigevano la somma di ben diecimila lire.
Si arrivò così alla metà del luglio del 1900, quando lo stesso Viola, dopo il fallimento del colpo, decise di separarsi dai due banditi maremmani.
  Da solo, tentò un ultimo disperato ricatto nei confronti del ricco Placido Felizzola di Pratoianni, il quale non rispose alle minacce del bandito.
Ma il giorno fatale per Berardino Viola arrivò la mattina del 29 luglio, quando, alle prime luci dell’alba, dopo aver passato la notte all’addiaccio in un bosco in prossimità di Teglieto, scese furtivamente nel casale in località contrada Valle, appartenente a Pietro Silvi fratello di Cecilia, sua nuora.
I carabinieri della stazione di Petrella Salto e Fiamignano, già da tempo sulle tracce del bandito, infine lo catturarono, dopo un cruento scontro a fuoco, dove ebbe la meglio il milite Giuseppe Mencaroni.
  Ferito al polpaccio della gamba sinistra ed incatenato a dovere, venne trasportato su un carretto a Fiamignano, poi a Cittaducale e, dopo gli interrogatori di rito, fu tradotto nelle prigioni dell’Aquila con il treno.
Il 25 maggio 1901 il tribunale della Corte d’Assise dell’Aquila lo condannò inesorabilmente alla pena dell’ergastolo da scontare nel penitenziario di S. Stefano (isole Ponziane), dove l’irriducibile brigante morì nel 1906, senza che le autorità di polizia avessero almeno comunicato al comune di Petrella Salto l’avvenuto decesso.

 

 

Per maggiori approfondimenti sul
personaggio si consiglia leggere il libro
“Vita e morte del brigante Viola” (1838-1906)
scritto da Fulvio D’Amore (300 pagine, prezzo 16,00 €) presentato il 28 dicembre 2002 presso l’aula consiliare di Petrella Salto e disponibile presso le librerie.

 

In basso " La morale del brigante", brano dei Ratti della Sabina dedicato alla figura di Berardino Viola.