Beatrice Cenci.

Tra i personaggi storici più famosi nel mondo legati al territorio reatino ed in particolare a Petrella Salto, una volta terra dell'Abruzzo Ulteriore e quindi appartenente al regno di Napoli, si staglia la figura di Beatrice Cenci. Protagonista nelle opere di Shelley, Artaud, Moravia, Dumas e di tante pellicole cinematografiche, la drammatica storia di Beatrice e della sua famiglia è imperniata sulla ribellione ai voleri di quello che oggi definiremmo un "padre padrone". La giovane che in realtà aveva circa venti anni di età,  fu costretta a subire sulla sua pelle prima le violenze imposte dal genitore e successivamente, dopo l'assassinio di questo, il potere patriarcale e implacabile della "giustizia" papalina. La barbara eliminazione di Beatrice avvenuta a Roma l'11 settembre 1599, sotto il pontificato di Clemente VIII, motivata probabilmente anche dalla rapacità del clero verso i beni dei Cenci, precede di poco quella di Giordano Bruno. Beatrice, definita dal popolo della Capitale "la vergine romana" rappresenta ancora oggi per molti e molte, un vessillo di libertà da innalzarsi contro ogni potere patriarcale. Il teatro Rigodon, nel luglio del 2010, ha messo in scena uno spettacolo in cui sono stati coinvolti giudici e avvocati che hanno avuto l'onore, alla luce delle normative esistenti, di riabilitare Beatrice Cenci fino alla completa assoluzione in quanto le confessioni furono estorte con la tortura e dai fatti storici che si sono potuti acclarare, emerge chiaramente la motivazione della legittima difesa. Il primo spettacolo si è svolto non casualmente a Petrella Salto, ai piedi delle rovine della Rocca in cui Beatrice fu rinchiusa dal padre e in cui si consumò l'omicidio nel settembre 1598.

 

In basso alcuni momenti dello spettacolo del Rigodon e un riepilogo della vicenda.


«Tutta Roma erasi mossa a compassione dalla giovane […] la quale ha mostrato così gran cuore in questi suoi travagli ch’ha fatto stupire ognuno. Et la morte della giovane, che era assai bella et di bellissima vita ha commosso tutta Roma»

Roma, 9 Settembre 1598
La città santa viene sconvolta da un terribile evento che sancirà la caduta di una delle famiglie più ricche e potenti sotto il pontificato di Clemente VII.
La nobiltà romana, divisa tra innocentisti e colpevolisti, assisterà sgomenta dopo pochi mesi alla pubblica esecuzione di Beatrice Cenci, seppellendo nel silenzio quello che sarà ricordato in seguito come la vicenda più cruenta dell’anno Millecinquecento.
Quella che è passata alla storia come una vicenda torbida di intrighi familiari, è in realtà da intendersi in una chiave di lettura più ampia come l’epilogo di sordidi intrighi di corte, rivolti contro una delle famiglie nobili romane in quel momento più lontane dagli interessi della Curia.
La famiglia Cenci infatti in quel periodo vive ai margini dei fermenti politici e sociali della Controriforma. All’apogeo della loro fortuna, i Cenci si illudono di potersi isolare nel loro splendore, perdendo così i contatti con la realtà storica della capitale.
Sotto i precedenti pontificati di Sisto V e Clemente VIII, il patriarca della famiglia, Francesco Cenci, forte della sua appartenenza al Senato Romano, tralascia di intessere tutte quelle trame e quegli intrighi di stato cui tutte le altre famiglie nobiliari sono attivamente dedite nell’infida Roma papalina del Millecinquecento, convinto che bastino da soli i suoi nobili natali e la sua rete di relazioni clientelari per garantirgli protezione e immunità.
Ma non è così.
Venuto in odio per i suoi atteggiamenti inconcilianti ed aggressivi alla potente nobiltà papalina, egli attira su di sé la nemesi della Curia.
Coinvolto in situazioni ambigue, formalmente accusato di omicidio e di abusi sessuali, con insinuazioni di omosessualità, è costretto a scontare alcuni mesi di prigione e a tacitare le accuse con il penoso esborso di ingenti somme prelevate dal suo capitale personale.
E’ un avvertimento chiarissimo, il segno di quanto possa essere duro il lungo braccio del papato, fattosi sempre più forte in quel momento storico che sarà decisivo per l’affermazione definitiva del nuovo potere autarchico della Chiesa fattasi Stato.
Da questo evento si innesca per i Cenci un’inevitabile spirale di eventi a catena che li condurrà alla tragedia finale.
Costretto all’applicazione di un inaudito irrigidimento nella gestione del patrimonio familiare, nel tentativo di far fronte alle sanzioni comminategli, il Duca Francesco impone restrizioni e serratissime economie, riducendo appannaggi e liquidando proprietà.
Il figlio maggiore Giacomo è addirittura costretto portare la sua causa davanti al Tribunale Ecclesiastico nel tentativo di farsi reintegrare le sue rendite abituali, che gli erano necessarie per condurre la sua vita abituale e per reggere in piedi la sua fitta rete di relazioni pubbliche, a quell’epoca indispensabile per assicurarsi una congrua posizione sociale.
Nel 1954 giunge l’ulteriore intimazione di sequestro per circa un quinto del patrimonio Cenci, pari alla somma iperbolica di 100.000 scudi, a seguito di una pesantissima accusa di sodomia.
La rovina imminente ormai incombe sul capostipite dei Cenci che ripara nel regno di Napoli, portando con sé la seconda moglie Lucrezia Petroni, e la giovanissima figlia Beatrice, per allontanarla dai pericoli degli intrighi di corte e preservarla dal cattivo influsso del fratello e dal rischio di contrarre un errato matrimonio. Nell’evidente impossibilità di far fronte in modo onorevole alla situazione disastrosa, Francesco Cenci applica un rigore austero alla gestione delle sue finanze, confinando moglie e figlia in due angusti locali della Rocca Petrella, che li ospita, di proprietà della famiglia Colonna, da sempre collegati ai Cenci.
Costretto a vivere come un mendicante, il Duca, si reca a Roma per tentare di salvare i suoi affari, deve alloggiare presso l’Ospedale degli Incurabili, avendo dovuto affittare il Palazzo Ducale.
Afflitto dalla rogna, e roso dall’acredine si aggira per la Capitale vestendo i panni di un miserabile. Tutto questo in una Roma Papale dove lo sfarzo e la magnificenza erano gli unici chiari indicatori del proprio prestigio sociale.
Mentre a Roma le famiglie combattevano per la propria posizione nella gerarchia della nobiltà capitolina, gareggiando in splendore per raggiungere i primi posti, e per mantenerli, il capostipite della più nobile e antica famiglia del Senato Romano combatteva invece per sopravvivere all’ostracismo e al degrado. Ormai preda dell’angoscia e di un esacerbato risentimento Francesco riversa nell’ambito familiare il suo disagio, con atteggiamenti aggressivi fisici e verbali ai limiti della violenza domestica. Nella rocca di Petrella, a Napoli, si sta per consumare la tragedia che condusse poi la giovinetta Cenci al patibolo sulla pubblica piazza.
Esacerbate dalle durissime condizioni di vita, insopportabili soprattutto se confrontate con il lusso, l’agiatezza e il prestigio sociale cui erano invece abituate, le due donne svilupparono presto nei confronti di Francesco Cenci un senso di risentimento così forte da condurle a ordire un complotto domestico per la sua eliminazione.

 
Fomentandosi a vicenda in segretissime conversazioni con gli unici due uomini ammessi a frequentare l’angusto alloggio della Rocca, Lucrezia Petroni e Beatrice Cenci tramano un piano.
Il feudo della Rocca di Petrella è proprietà dei Colonna, che ospitano e appoggiano i Cenci in nome di antiche alleanze, e mettono a loro disposizione il loro Castellano Olimpio Calvetti, odiatissimo dal Cenci perché sospettato di ambire ad impalmare Beatrice, profittando delle difficoltà estreme in cui versava in quel momento la nobile Casata Cenci.
L’altro uomo coinvolto è Marzio Catalano, servitore dei Cenci. Su istigazione delle due donne, come sarà poi ricostruito nel memoriale Relattione su la morte di Iacopo, Beatrice e Lucrezia Petroni Cenci, i complici tentano prima vanamente di commissionare l’omicidio ad alcuni banditi della zona, poi passano all’azione stordendo Francesco Cenci con l’oppio e trucidandolo nel suo letto.
Con la tipica ingenuità dei delinquenti improvvisati tentano debolmente di inquinare la scena del delitto, simulando un incidente, ottenendo però solo l’aggravamento della loro già compromessa posizione.
È in questo modo che la mattina di quel fatale 9 Settembre 1598, il nobile Cenci viene rinvenuto nell’orto con il cranio fracassato, esattamente sotto il balcone della rocca, con il corpo apparentemente trafitto da una canna di sambuco.
Fu una Beatrice Cenci pallida e tremante, forte del suo splendore di innocente giovinetta, a denunciare il macabro rinvenimento del cadavere.
Facendo affidamento sulla loro condizione femminile, sui privilegi nobiliari conferiti per nascita, e sulla triste fama guadagnata in vita dal Cenci, le due donne fecero ritorno a Roma, confidando di poter riprendere la vita fastosa cui erano abituate, e di poter finalmente disporre liberamente dei loro beni.
Ma a Petrella il Nobile Marzio Colonna, sentendosi responsabile per quanto accaduto entro il suo possedimento feudale, e legato da antichi legami di solidarietà con Francesco Cenci, decide di indagare e viene presto a scoprire tracce niente affatto nascoste. Si appura infatti che nessuno tra il popolino crede alla versione dell’incidente, che alcuni testimoni hanno visto Olimpio Calvetti entrare nella rocca la sera precedente alla disgrazia, e che una lavandaia racconta addirittura di aver ricevuto da Beatrice lenzuola intrise di sangue da lavare urgentemente il giorno stesso della scoperta del cadavere.
In quello che fu forse uno dei primi tentativi di ricostruzione investigativa sulla scena del delitto, si compiono accurati sopralluoghi sul luogo della disgrazia, operando confronti, misurazioni e rilevamenti, giungendo infine a giudicare come incongruente la ricostruzione degli eventi così come resa dalla testimonianza di Beatrice Cenci.
A Napoli, insomma, i nobili del luogo, anticamente legati ai Cenci, cominciano a pensare a un delitto, e nemmeno molto ben eseguito. La notitia criminis giunge infine a Roma e dà luogo all’apertura di una inchiesta, che conduce all’immediato arresto di Marzio Catalano. Il Castellano dei Colonna, torturato alla corda, confessa tutto, indicando in Beatrice l’ideatrice del piano delittuoso.
Le due Cenci tuttavia, sostenute dal fratello, negano ostinatamente, forti della loro posizione sociale ora riconquistata e certe dell’immunità correlata all’antichità dei loro nobili privilegi. In particolare Beatrice, indicata dal Catalano come istigatrice ed ideatrice del complotto delittuoso, ostenta un atteggiamento spavaldo, arrogante e aggressivo, commettendo il medesimo errore che condannò alla rovina e all’ostracismo suo padre.
Nemmeno il linguaggio latineggiante e stereotipato, burocratico e aulico dei registri della Cancelleria riesce a stemperare il tono delle frasi altere pronunciate dalla giovinetta, che sancisce da sola in questo modo la sua condanna futura.
In questo clima di sospetto la notizia improvvisa della morte violenta del servitore da sempre fedele ai Cenci, Olimpio Calvetti, a opera di sconosciuti sicari, non fa altro che aggravare la situazione e viene interpretato come ulteriore prova a carico.
I Cenci vengono riconosciuti come i mandanti anche di quell’omicidio nell’evidente tentativo di liberarsi di un testimone pericoloso, fedele alla famiglia, ma passibile di confessione se sottoposto a tortura.
A Roma dunque, quei pochi che ancora riponevano fiducia nella famiglia Cenci, cominciano a mutare parere, convinti dalla nuova piega degli eventi, e il Papato e i Giudici di comune accordo applicano un inasprimento delle procedure ancora morbide e caute che erano state fino ad allora applicate.
 

Cresce intanto anche l’animosità popolare nei confronti di questi nobili ormai decaduti, e nonostante la massima segretezza adottata nel procedimento a loro carico, il popolo ha già pronunciato la sua condanna.
In questo momento particolare, la famiglia Cenci si macchia di un altro crimine. Jacopo Cenci viene ucciso dal fratello minore Marcantonio Massimo, per una vile questione di denaro.
È chiaro che una volta liberi dal giogo paterno, in assenza di una guida, i rampolli Cenci non sono in grado di gestire la situazione.
La tensione sale alle stelle, i difensori dei Cenci vengono tutti in blocco sottoposti a un inusuale arresto preventivo, mentre il papa, con un editto speciale priva i sospettati del loro antico privilegio nobiliare, autorizzando il Tribunale a torturare gli imputati al fine di ottenere una condanna certa ed immediata.
Per l’epoca è un fatto inaudito.
Sotto tortura la famiglia, fino ad allora compatta nella difesa, si sgretola e si frantuma, cedendo a tutta una serie di accuse incrociate.
Il figlio maggiore Giacomo crolla sotto tortura e confessa il crimine, ma in un ultimo accenno di lucidità tenta di scaricare tutta la colpa su Olimpio, il Castellano ormai reo confesso e già irrimediabilmente compromesso. Lucrezia invece indica come esecutori materiali ed ideatori del complotto omicida la figliastra Beatrice in combutta con il pretendente Olimpio, scagionando Giacomo, che ne sarebbe venuto a conoscenza, come del resto sembra probabile, solo in un secondo tempo.

Beatrice è l’unica che nonostante i suoi sedici anni e la sua evidente inesperienza della vita dimostra vigoria e coraggio, resistendo eroicamente alle sevizie ella continua a confermare la sua versione, che scagiona tutti gli altri oltre che se stessa, in una difesa senza riserve dell’integrità familiare.

Così la stessa Beatrice, risponde all’interrogatorio del giudice:
“[...] Quando io mi rifiutavo, lui mi riempiva di colpi. Mi diceva che quando un padre conosce... carnalmente la propria figlia, i bambini che nascono sono dei santi, e che tutti i santi più grandi sono nati in questo modo, cioè che il loro nonno è stato loro padre”.

[...] A volte mi conduceva nel letto di mia madre, perché lei vedesse alla luce della lampada quello che mi faceva”.

Tutti erano a conoscenza degli spregevoli gusti sessuali di Francesco Cenci.
Godeva di cospicue somme di denaro, e con esse aveva corrotto i suoi giudici in occasione dei tre processi subiti (fra cui uno per sodomia) a causa dei suoi “amori” infami, scampando così alle sanzioni contemplate dalle leggi dell’epoca. Neanche l’intervento dei tre figli maschi impedì la scarcerazione dell’uomo, che al suo ritorno s’accanì contro la sola figlia rimasta sotto il suo tetto, segregandola in un appartamento della fortezza di Petrella, percotendola e violentandola sotto gli occhi della madre, Lucrezia Petroni Cenci.
Beatrice aveva inviato una lettera al Papa, in cui raccontava dettagliatamente le sevizie del genitore.



Questo documento, unica prova della sua legittima difesa, sparì misteriosamente senza mai giungere nelle mani del destinatario.
Persa ogni speranza, decise così, forte della complicità della matrigna, del fratello maggiore Giacomo, e di Monsignor Guerra, di assassinare il padre.
Dalle parole della ragazza si intuisce l’orrore che visse e che la portò a compiere il disperato gesto:

“[...] Quando ero bambina, ogni notte facevo lo stesso sogno. Sono nuda in una stanza immensa e una bestia respira, respira, non smette di respirare. Mi accorgo che il mio corpo splende. Vorrei fuggire, ma devo nascondere il mio corpo nudo. Si apre allora una porta. E all’improvviso, scopro di non essere sola. No! Insieme con la bestia che mi respira a fianco, sembra che altre cose respirino; e d’un tratto vedo brulicare ai miei piedi un ammasso di cose immonde. E anch’esse sono affamate. Comincio a correre senza fermarmi per cercare di ritrovare la luce. La bestia, che incalza, mi insegue di grotta in grotta, me la sento addosso, ha fame, tanta fame...”

È proprio su di lei però che gli “Inquisitori” si accaniscono a lungo nella tortura, riuscendo alfine a strapparle una piena confessione.
Va poi registrata negli annali della giurisprudenza l’accorata difesa del giureconsulto Prospero Farinacci, che nel tentativo estremo di salvare la giovinetta dal patibolo ormai certo, porta alla ribalta delle cronache il supposto colpo di scena della violenza carnale, usata dal Padre su Beatrice all’epoca dell’esilio nella Rocca di Petrella.
Ma quella che è un’abile strategia difensiva viene strumentalizzata dal papato che utilizza l’argomentazione più come un’aggravante piuttosto che come un’attenuante.
Il parricidio Cenci aveva ora un chiaro movente, e il fatto che tutti odiassero il Patriarca della famiglia non faceva altro che corroborare le accuse.
Nessun testimone formale, che non fosse stato a sua volta incriminato, può infatti confermare la versione della violenza carnale, e il tentativo di trasformare il Parricidio in un delitto d’onore fallisce miseramente.
Tentando di dimostrare il clima di violenza, di ristrettezze economiche, e di pressioni psicologiche a cui le due donne Cenci erano sottoposte dalla vittima si ottiene solo la conclamazione dell’accusa.
La mattina dell’11 settembre 1599, l’intera famiglia Cenci, con eccezione unica di Bernardo, l’ultimo nato, risparmiato per la giovanissima età, viene condotta al patibolo per l’esecuzione nella pubblica piazza.
Giacomo, Lucrezia, e Beatrice vengono giustiziati uno dopo l’altro.
Memorabile passa alla storia la pudica immagine di una Beatrice Cenci dimessa, abbigliata in una semplice veste di panno turchino, che va a morire immortalata nell’attimo stesso del suo massimo splendore adolescenziale.
Le guadagnano l’affetto eterno, e la commiserazione del popolino romano, che poi in parte ha contributo a riabilitarne la memoria, il composto atteggiamento religioso e la pudicizia con cui si acconcia le vesti perché nessuno la possa vedere discinta mentre muore con dignità e compostezza.
All’unico maschio sopravvissuto della famiglia, eccezion fatta per l’ultimogenito non sottoposto a giudizio, fu revocato il privilegio nobiliare di essere decapitato con una spada, per essere sottoposto alla condanna riservata ai normali delinquenti di bassa estrazione sociale.
Così infamemente muore Giacomo Cenci, sottoposto a squartamento dopo una lunga tortura pubblica con mazza e tenaglie.
È in parte l’efferatezza di queste esecuzioni e la successiva confisca dei beni della famiglia Cenci, inglobati dal Papato, a ingenerare il dubbio nell’opinione pubblica.
Quando poi la sontuosa tenuta di Torrenova, appartenuta ai Cenci, viene ceduta per un prezzo simbolico al nipote del Papa, il popolo inizia ad inquadrare la vicenda sotto una luce diversa, sospettando che lo spietatissimo processo e le feroci esecuzioni fossero state pilotate dalle autorità Papaline per puri scopi personali.
Così l’immagine della fragile Beatrice Cenci che sale al patibolo in un’encomiabile, anche se tardiva, esibizione di dignità e di fierezza, viene consegnata per sempre al Mito e alla Storia, e la sua memoria riabilitata a furor di popolo.

 

 

Petrella Salto ( Rieti) . La rocca Beatrice Cenci
Petrella Salto ( Rieti) . La rocca Beatrice Cenci